Mio padre in Russia ci andò quando aveva 20 anni. A dire il vero era Ucraina, non Russia, ma tanto allora era tutta Unione Sovietica.
Fu mandato a Dnepropetrovsk (oggi Dnipro), città di cui non avrei mai saputo l’esistenza almeno fino a qualche anno fa, quando la locale squadra di calcio eliminò (ahimè) il Napoli dalla Europa League.
Mio padre in Russia ce l’avevano mandato con il fucile in spalla e le scarpe di cartone a rischiare la pelle, però aveva dei bei ricordi, perché i ricordi di quando hai vent’anni sono belli a prescindere: il commilitone e fraterno amico Ravarotti da Mantova, che lo chiamava “mangiasapone”; il sergente maggiore Negroni, loro vittima predestinata; l’opera omnia di Puškin in russo, che la polizia militare fascista gli aveva sequestrata al rientro in Italia, a Vipiteno, dopo la ritirata delle centomila gavette di ghiaccio (e qui, puntualmente, partiva il commento: “Chilli fesse d’’e fasciste!”). E una certa ragazza, Viktoria Ivanovna Poljanskaja.
Insomma papà, in Russia aveva lasciato un pezzo di cuore, e in me una grande curiosità di visitarla. A Pasqua di quest’anno sono partito con un viaggio organizzato dal mio Cral aziendale: destinazione, San Pietroburgo e Mosca. Il viaggio della vita.
Siamo partiti in una soleggiata mattina di aprile, talmente calda che pensai bene di togliermi il giaccone pesante, tirato fuori dall’armadio per l’occasione (a Roma non lo usavo più da un mese) e di infilarlo nella valigia, che prudentemente feci incellofanare prima dell’imbarco. Il pomeriggio atterrammo a San Pietroburgo, dove la situazione metereologica era la seguente:
All’aeroporto, mentre eravamo in fila per il controllo dei passaporti, provai a strappare il cellophane con le unghie per recuperare il giaccone, ma senza successo. Mentre, disperato, mi accingevo a usare i denti, mi venne incontro una imponente signora in divisa militare che, senza dire una parola, mi porse un paio di forbici salvandomi dal congelamento (fuori la temperatura era di – 5). Fu il mio primo contatto con i Russi. Sulla guida turistica c’era scritto che sono molto gentili ma parlano poco e non sorridono (quasi) mai. È vero.
Il nostro albergo era vicino al Politecnico. La sera, nonostante il freddo e la neve, con il mio avventuroso compagno di stanza decidemmo di fare una passeggiata in centro e prendemmo la metropolitana alla stazione più vicina, Tehnologičeskij Institut, a due fermate dal Nevskij Prospekt, la Prospettiva Nevskij cantata da Franco Battiato.
Pochi giorni prima, in quella stazione era esplosa la bomba che aveva ucciso 11 persone, quasi tutte ragazze e ragazzi che frequentavano l’Università. Il freddo conservava ancora intatti i fiori lasciati sul luogo della strage.
Facemmo una passeggiata sul Nevskij, tenendoci a braccetto per non scivolare, e sbucammo per caso in una piazza bellissima, immensa e deserta. Faceva troppo freddo per togliersi i guanti e sfogliare la guida e così scoprimmo solo l’indomani dove eravamo capitati: a Piazza del Palazzo, di fronte alla Colonna di Alessandro e al Palazzo d’Inverno.
La mattina dopo non nevicava e cominciammo il giro turistico della città sotto l’auspicio di un pallido sole. Prima tappa, la Fortezza Pietro e Paolo, cittadella fortificata costruita su un isolotto sul fiume Neva. Nella omonima cattedrale sono sepolti i sovrani della dinastia dei Romanov, da Pietro I il Grande, fondatore della città, all’ultimo zar, Nicola II, fucilato con tutta la famiglia durante la Rivoluzione. I loro corpi furono recuperati dopo la caduta del Comunismo: anche quello di Anastasia, la figlia più giovane, che una leggenda voleva scampata al massacro ed errante per l’Europa senza più memoria.
E non poteva mancare il monumento al fondatore della nuova capitale. Io sono quello con il mio ormai famoso giaccone blu.
Nella fortezza vi erano anche le carceri dei prigionieri politici. Quelli condannati a morte o alla deportazione in Siberia venivano condotti a questo imbarcadero attraverso una porta detta “della morte”: la versione russa del nostro Ponte dei sospiri.
Il pomeriggio, visita al Palazzo d’Inverno, residenza degli zar…
… e all’adiacente Palazzo dell’Ermitage, fatto costruire da Caterina II la Grande per godersi un po’ di privacy (da qui il nome, che evoca solitudine e meditazione). Come tutti sanno, il Museo dell’Ermitage è uno dei più grandi del mondo e sarebbe impossibile descrivere anche la minima parte dei tesori che vi sono custoditi. Molti sono stati acquistati da Caterina II in Europa, soprattutto in Italia: regolarmente acquistati, ha tenuto a sottolineare la nostra accompagnatrice, non depredati come fece Napoleone. Tra tutti, da buon napoletano, sono orgoglioso di mostrare questo splendido vaso greco ritrovato sul litorale cilentano, allora Magna Grecia. È noto come la regina vasorum, e si capisce perché.
La custodia delle sale del Museo è affidata a uno stormo di vecchiette molto russe, tutte abbastanza abbondanti, vestite di nero, con l’aria arcigna. Ci hanno spiegato che le donne a 55 anni hanno diritto alla pensione, che di solito arrotondano con qualche lavoretto poco usurante. Nel nostro caso, sonnecchiando su una sedia, aprendo un occhio di tanto in tanto per urlare: “no flash! no flash!” e riassopendosi beatamente, lasciando che i visitatori continuino a fotografare come pare a loro.
Evidentemente neanche l’Ermitage appagò le esigenze di tranquillità di Caterina II, che infatti si fece costruire un’altra residenza a una trentina di chilometri dalla città, in un posto denominato con ipocrita modestia “il villaggio dello zar” (Carskoe Selo): il Palazzo d’Estate, o Palazzo di Caterina.
Progettato dall’architetto italiano Bartolomeo Rastrelli, fu occupato dai Tedeschi durante l’assedio di Leningrado, depredato e semidistrutto. Perfettamente restaurato, ospita delle splendide opere d’arte e fa da cornice ai matrimoni, come dimostra questa infreddolita coppietta di sposini.
Per volontà di Pietro il Grande, la città che porta il suo nome fu edificata nello stile tipico delle capitali occidentali da architetti italiani: Giacomo Quarenghi, Carlo Rossi, oltre al menzionato Rastrelli. Spicca, perciò, nel panorama di San Pietroburgo una splendida chiesa in barocco russo costruita tra il 1883 e il 1907, la Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato. Il sangue è quello dello zar Alessandro II che il 13 marzo 1881, mentre passava in carrozza sulla riva della Neva dove ora sorge l’edificio, fu assassinato dall’esplosione di una bomba.
Eroe nazionale russo e santo patrono di San Pietroburgo è Aleksandr Nevskij, principe guerriero – poi canonizzato – vissuto nel 1200, che sconfisse gli Svedesi sul fiume Neva (da qui il soprannome) e i Cavalieri teutonici nell’epica Battaglia del lago ghiacciato, immortalata in un celebre film di Ėjzenštejn (il regista della Corazzata Potëmkin…). Proprio sul luogo della battaglia della Neva sorge il Monastero a lui dedicato, imponente complesso monumentale al quale sono annessi vari cimiteri dove riposano alcune delle maggiori personalità della cultura russa. Ho reso loro doveroso omaggio, a due in particolare: Pëtr Il’ič Čajkovskij e Fëdor Michajlovič Dostoevskij.
Quest’anno ricorre il centesimo anniversario della Rivoluzione russa, e il nostro viaggio non poteva non ripercorrere anche i luoghi simbolo dell’Ottobre rosso. Ne ho scelti tre: la Stazione Finlandia, dove fermò il treno che riportava Lenin in patria;
l’incrociatore Aurora, dal cui cannone di prua fu sparato il primo colpo della Rivoluzione, il 7 novembre 1917;
e il Palazzo Kšesinskaja, dove Lenin tenne il suo primo discorso appena tornato a Pietrogrado, nuovo nome dato alla città nel 1914, che dal 1924 al 1991 si chiamò Leningrado e oggi è tornata a essere San Pietroburgo. Palazzo Kšesinskaja era la residenza della bellissima ballerina Matil’da Kšesinskaja, amante del principe Nicola prima che questi diventasse Nicola II, (ultimo) zar di tutte le Russie, e sposasse Alessandra. La Storia ha un formidabile senso dell’ironia…
“A Mosca, a Mosca!”, esclamavano le tre sorelle del dramma di Čechov, speranzose di trasferirsi dal buco di provincia in cui vivevano nella splendida capitale. Più fortunato di loro (e della Nazionale di calcio italiana), io a Mosca ci sono arrivato, in un comodo treno ad alta velocità partito, tanto per cambiare, sotto una furibonda nevicata.
E la mattina dopo, tutti sulla Piazza Rossa: il Cremlino, San Basilio e, naturalmente, il Mausoleo di Lenin.
Il nome della Piazza Rossa (Krasnaja Ploščad) non ha niente a che fare con il Comunismo: “krasnaja”, infatti, in russo vuol dire sia “rossa”, sia “bella”, ed è davvero una bellissima piazza. In essa sorge la cittadella fortificata (Cremlino) di Mosca; tutte le principali città russe hanno il loro cremlino, anche se quello della Capitale è diventato il Cremlino per antonomasia.
Il Cremlino è cinto da alte mura rosse intervallate da venti torri e al suo interno sorgono chiese, palazzi governativi, edifici di varia destinazione. E sono custodite due chicche che la dicono lunga sulla megalomania dei Moscoviti, convinti dall’epoca di Ivan il Terribile che la loro città sia la terza Roma (dopo la caduta di Roma e Costantinopoli) e che “una quarta non sarà”: lo zar dei cannoni e la zarina delle campane.
Il primo è il cannone più grande del mondo: peccato (o, meglio, meno male) che non ha mai sparato un colpo, per il semplice fatto che per la sua mole è intrasportabile su qualsiasi campo di battaglia.
La zarina delle campane è la campana più grande del mondo (216 tonnellate): non ha mai suonato perché, prima di essere issata sulla torre a cui era destinata, un incendio ne staccò un “frammento” di 11 tonnellate e mezzo. Chi tocca il frammento tornerà a Mosca, dice una favola metropolitana equivalente al nostro soldino nella Fontana di Trevi. Io l’ho toccato, hai visto mai…
Le chiese ortodosse hanno un’architettura molto diversa da quelle cattoliche. Di regola sono a pianta rotonda, sormontate da cinque cupole “a cipolla” che simboleggiano il Cristo e i quattro evangelisti, e lo spazio riservato ai fedeli, completamente vuoto (nelle chiese ortodosse non ci si siede…) è separato dall’altare da una parete interamente coperta da immagini sacre, l’iconostasi.
Anche la liturgia è diversa dalla nostra: solenne, interminabile, guidata da colossali pretoni (i pope) con barbe lunghissime e voci salmodianti da basso profondo. Particolarmente suggestiva è la liturgia del sabato santo, che culmina a mezzanotte con l’uscita dalla chiesa dei fedeli in processione, guidati dal clero, che compiono tre giri dell’edificio e vi rientrano dopo che il sacerdote ha proclamato per tre volte “Christos voskrèse!” (Cristo è risorto!) e il popolo ha risposto “Voistinu voskrèse!” (In verità è risorto!). Il rito si compie per tutta la settimana che segue la Pasqua: ecco alcune immagini catturate fuori la Cattedrale di San Basilio.
Per chi, come me, prende la metropolitana di Roma tutti i giorni da 30 anni, ha dell’incredibile. 14 linee, 346,2 km., 206 stazioni, 9 milioni di passeggeri al giorno, puntualità nella circolazione pari al 99,99%, tempo di attesa massimo 90 secondi. E, dicono con (legittimo) orgoglio i Moscoviti, si è fermata per un solo giorno in tutta la sua storia: nel novembre del 1941, quando la Capitale sembrava ormai in mano ai Tedeschi, talmente vicini che riuscivano a fotografare le guglie del Cremlino. Ma il giorno dopo cominciò la controffensiva, Mosca fu salva e la metropolitana riprese regolarmente le sue corse.
Vero e proprio monumento al regime Comunista, la Metropolitana è un’orgia esagerata di falci e martello, busti di Lenin…
… e dipinti celebrativi. Ne ho scelto uno tra i tanti: un quadro che mostra civili ucraini e militari russi che festeggiano la vittoria sui Tedeschi. Sul dipinto campeggiava la scritta “L’amicizia tra i popoli russo e ucraino durerà per sempre”: recentemente è stata cancellata, non so perché…
A circa 70 chilometri da Mosca, nella cittadina di Sergiev Posad, sorge il Monastero della Trinità di San Sergio, patrono di Mosca.
In questo luogo, nel 1345, il santo monaco si ritirò in eremitaggio, si costruì una capanna di legno, raccolse i suoi primi discepoli, fece i suoi primi miracoli e, come san Francesco col lupo di Gubbio, addomesticò un feroce orso.
A questo Monastero si recavano in pellegrinaggio, a piedi, gli zar, evidentemente in più giorni e con numerose soste ristoratrici.
Nel Monastero è attivo un grandissimo negozio di souvenir, dove si trova di tutto e di più: icone, colbacchi, artigianato locale, gioielli, vodka, abbigliamento… Non sono sfuggito alla tentazione di comprare dei bellissimi (e costosi) scialli tipici per le donne di casa. Al bancone, l’immancabile vecchietta russa, piccola, gentile, in abito tradizionale, che non parlava una parola di inglese e capiva l’italiano come io capisco il russo. Ci intendemmo magnificamente a gesti e compresi anche quando mi chiese da dove venivo. Risposi: “ital’ianskij” e cominciò a gorgheggiare: “Lasciatemi cantare…”, esclamando entusiasta “Toto Cutugno, da, da!”. Le chiesi: “Al Bano e Romina?”. Mi guardò sdegnosa e dichiarò: “Al Bano e Romina niet.”. E con un garbato ma tassativo “niet” rispose anche alla mia gestuale ma inequivocabile richiesta di un piccolo sconto.
Avevo venti anni quando lessi Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, e mi si è indissolubilmente piantato nel cuore.
Chi lo ha letto (chi non lo fatto, non sa cosa si perde…) sa che è ambientato a Mosca: inizia in un piccolo giardino pubblico chiamato Patriaršie prudy (Gli stagni del Patriarca), dove appare Satana in persona sotto le sembianze di un anziano signore, colto, distinto ed elegante. Volevo a tutti i costi vedere gli Stagni e così, approfittando del pomeriggio libero, ho abbandonato i compagni di viaggio e, guida alla mano, mi sono avventurato da solo per Mosca. Da uomo previdente, prima di partire mi ero dato una buona ripassata al cirillico che mi aveva insegnato papà, perciò il russo lo leggo, anche se non lo capisco. Mi sono districato senza difficoltà tra le stazioni della metropolitana e le targhe stradali: dalla Piazza Rossa a Piazza Majakovskij, poi a piedi per la via Bolšaja Sadovaja, passando davanti alla casa di Bulgakov, poi la seconda traversa a sinistra e… beh, ero lì, agli Stagni del Patriarca. Satana non l’ho visto, ma ho visto realizzarsi un mio piccolo grande sogno. E non è poco.
L’ultima sera abbiamo fatto un’escursione notturna per Mosca in autobus, che è terminata, sulla Vorob’ёvy Gory (Collina dei Passeri, uno dei sette colli di Mosca… vi ricordate la terza Roma?). È il posto dove, alla fine del romanzo, il Maestro e Margherita danno l’addio a Mosca e volano via.
L’ho fatto anche io.
Giuseppe Palumbo
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