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Lesbos – Un incontro fortunato

Lesbos - Un incontro fortunato

Eravamo a Lesbos già da qualche giorno Dino, Massimo e io. Prima di spostarci a Chios volevamo visitare uno dei due profondi golfi che si aprono nel lato sud dell’isola, quello di Yera. L’ingresso del golfo è molto stretto, e promette acque tranquille e protette da tutti i venti.  La baia di Skala Loutron, poco dopo l’ingresso del golfo, a est, sembra un posto perfetto per trascorrervi la notte. Ci sono già due barche all’ancora nella parte nord, e, attraccate a un moletto nella parte sud, due-tre barche grandi e altrettante un po’ più piccole, più o meno quanto noi, tutte a vela. Ci mettiamo all’ancora, nella parte nord, senza grandi problemi rispetto alle altre barche in rada. Siamo di fronte a una grande taverna, nella quale vediamo un bel po’ di movimento.

 

Sono passate da poco le sei del pomeriggio, il sole è ancora alto. Col binocolo cominciamo a sbirciare nella taverna. I tavoli sono tanti, anche i camerieri intenti ad apparecchiare sono numerosi. Qui deve succedere qualcosa di grosso. Guardando bene, ci sono dei tecnici che stanno montando un impianto di amplificazione.

 

Quando cominciano le prove acustiche: “ena, dio, tria“, ci guardiamo negli occhi atterriti pensando che le feste, in Grecia, vanno avanti fino al mattino, e decidiamo immediatamente di spostarci sul lato sud della baia, visto anche che al moletto c’è ancora abbondante posto.

 

E così facciamo, manovra perfetta (d’altro canto siamo un equipaggio esperto e affiatato), cime a terra prese da una coppia francese, proprietaria di una bella barca a vela poco più grande della nostra. Il posto però si rivela presto non utile, perchè l’altra barca a vela alla nostra destra, grandina e disabitata, ha delle cime di poppa molto traversate, che ci impediscono di abbassare la passerella come vorremmo.

 

E che ce vo’ (direbbe Matteo Miceli), c’è posto al di là della barca francese alla nostra sinistra. Quindi secondo disormeggio della serata e riormeggio poco più in là sotto gli occhi ammirati della coppia francese un po’ agé (e anche un po’ invidiosa per l’aitante equipaggio). Finalmente tutto ok, e si scende a terra per vedere cosa animerà la serata. Il villaggetto è carino, una taverna piccola in fondo al molo, molte barchette da pesca all’interno della darsena, qualche casetta qua e là. Nella parte nord della baia un grande ristorante, per lo più all’aperto,.

 

I preparativi che avevamo visto riguardavano un “grosso grasso matrimonio greco”. Contando approssimativamente i tavoli, dovrebbero essere non meno di quattrocento persone. Sono le 20 ed è quasi tutto pronto, c’è già qualche ospite vestito da cerimonia, tra un po’ non si riuscirà a parlare nemmeno a mezzo metro di distanza. Mamma mia, meno male che ci siamo spostati, eravamo anche sotto vento e quindi non avremmo certamente dormito. Tornati alla barca, ceniamo e ci  prepariamo all’offensiva acustica, che puntualmente arriva verso le dieci. Ma è meglio di quanto ci aspettavamo. Dopo il consueto Ouzo, che noi usiamo come digestivo ma che i greci usano come aperitivo, io resto in barca ma Dino e Massimo non resistono e vanno a sbirciare. La musica è un’irresistibile attrazione ed è la classica melodia greca utilizzata per le danze di gruppo. Dal racconto, e dai filmati, di Dino e Massimo la valutazione di prima era giusta, c’erano non meno di quattrocento persone che mangiavano, ballavano, provavano a chiacchierare, per un livello di decibel assolutamente elevato. Io tutto questo l’ho saputo e l’ho visto filmato il giorno dopo, perchè dopo un po’ che i “ragazzi” erano andati via, mi sono addormentato come un ghiro nella cabina di prua.

Il risveglio e l'ancora

Ma l’avevo immaginato, perchè al risveglio mattutino, ovviamente alle prime luci dell’alba, sono sbarcato e come al solito sono andato in giro a curiosare. Il ristorante sembrava un campo di battaglia, con un esercito di soldati, ancora intento a raccogliere morti e feriti, cioè a sbarazzare i tavoli, a ripulire a terra, a portar via bottiglie vuote e fusti di birra anch’essi esauriti. Erano le sei del mattino, ma sembrava che la festa fosse finita da pochi minuti.  Nell’aria c’era ancora  la felicità degli sposi e dei loro invitati.

 

Ma le sorprese della giornata non erano finite. Dopo una lauta colazione, qualche faccenda di bordo e l’ultimo giretto a terra, verso le dieci decidiamo di mollare gli ormeggi e avviarci verso Chios.

 

Solita manovra: si accende il motore, si mollano le cime di poppa, si salutano i vicini, si recupera la catena dell’ancora con lo zelante verricello elettrico di prua. Tutto bene fino a dieci metri dall’ancora, che ha deciso stamattina di non venire su neanche con le cannonate. Nessun problema, troppe volte è successo: si molla catena, si prova ad andare verso destra, verso sinistra, in avanti e all’indietro. Niente da fare. L’ancora si sposta un po’, mandando il motore al massimo, ma non più di tanto. Per non fare altri danni, ci fermiamo lì, tanto la barca non si sposta e non c’è vento, almeno per ora. Ci sono 6-7 metri di fondale. L’atletico Dino indossa pinne, maschere e boccaglio e va a vedere cosa è successo.

 

L’ancora ha agganciato un vecchio fusto, pieno di cemento, con anello e catena, probabilmente usato in passato come ormeggio fisso da qualche barcone del luogo. Dino riesce pure ad agganciare una cima a doppino sulla testa dell’ancora, ma non c’è verso di districarla da quella allucinante situazione. Non c’è problema, mi è già successo almeno altre quattro volte (che io ricordi una cosa del genere è capitata a Skiathos,  a Kalymnos, a Gokceada – isola turca – e a Saint Tropez). Ci vuole un sub, altrimenti non si riparte. D’atro canto, se da dodici anni vai in giro quattro mesi l’anno le cose succedono, non c’è da meravigliarsi.

 

Col gommoncino andiamo a terra Massimo ed io, e Dino resta di guardia al naviglio. Dopo aver sentito un po’ di gente in giro, alla taverna piccola in fondo al molo, ai barconi a motore che scopro essere di una ONG tedesca dedita al recupero di naufraghi (siamo a Lesbos), nessuno poteva aiutarmi. Eppure secondo me i tedeschi avevano le bombole e a bordo c’era anche chi le sapeva usare, ma evidentemente non avevano nessuna voglia di aiutarmi. La loro unica preoccupazione era che le loro ancore non fossero incattivite con la mia, cosa praticamente impossibile perchè eravamo molto distanti da loro. L’unico spiraglio di luce mi è stato dato dal proprietario della Taverna, che, dopo aver fatto una telefonata, mi dice che un diver potrebbe venire verso le 17, quando finisce di lavorare nel capoluogo dell’isola. Mi è sembrata  una buona opportunità e gli ho detto che andava bene.

 

Nel frattempo sono andato anche al piccolo cantiere sul lato sud della baia. No speack english e quindi lingua dei gesti. Hanno capito subito, evidentemente era un fatto frequente. Loro erano due signori anziani, mi sembrava impossibile che potessero risolvere il problema. Per non deludermi, hanno detto che nel pomeriggio sarebbero venuti a bordo a vedere. Ma le speranze di risolvere erano prossime allo zero.

 

Mentre torniamo a bordo, quasi a poppa di Matilde, spunta un gommone proveniente dal largo. A bordo c’è un sub con tanto di muta integrale, compresa la testa. Hello, are you a diver? urlo io.Yes, fu la risposta. Please come here, We need help. Insomma, il giovane sub capì subito la situazione, attaccò il suo gommone alla nostra barca, si mise la maschera, il boccaglio, le pinne lunghissime e andò giù a vedere. Ogni sua immersione durava un bel po’ di minuti, uno di noi sarebbe morto a fare la stessa cosa. Una cima di qua, una cima di là, molla catena, recupera catena, in dieci minuti il gioco era fatto, eravamo liberi. EVVIVA!!!!

 

L'incontro

Il nostro salvatore torna a bordo del suo gommone, si toglie pinne e maschera e sta per staccarsi dalla nostra barca. Io sono già andato a prendere nel mio borsello cinquanta euro, per dimostrargli tangibilmente la nostra gratitudine. Il tizio si schernisce, non vuole assolutamente accettare nulla. Io insisto, pensando che un lavoro del genere, in Italia mi avrebbero chiesto almeno 150€, in Francia me ne avevano chiesti 100, in Grecia e in Turchia 50. Alla fine, dopo varie mie insistenze, accettò e andò verso terra.

 

Era poco dopo mezzo giorno, ormai non valeva più la pena di andare a Chio, né di ormeggiare nuovamente lì, col rischio che il giorno dopo saremmo stati nuovamente in panne. Quindi decidemmo di uscire dal golfo di Yera e di andare in una rada, sempre a sud di Lesbos, poco dopo l’uscita del golfo a ovest. Una rada tranquilla, dove eravamo già stati due sere prima. Andando via, però decidiamo di passare vicino alla Taverna per fargli capire che avevamo risolto il problema e che il diver, nel pomeriggio, era inutile che veniva. Mentre facevamo ciò, vediamo il gommone del sub che viene velocemente verso di noi, con il diver che si sbraccia per attirare la nostra attenzione. Credendo che aveva dimenticato qualcosa, ci fermiamo e lo aspettiamo. Si accosta alla barca. ci dà una cima, apre una ghiacciaia che era al centro del suo gommone e comincia a poggiare sulla nostra coperta un sarago, due saraghi, un pesce bello non meglio identificato ma buono, un polipo di poco meno di un chilo. Insomma erano quasi tre chili di pesce di primissima qualità freschissimo, appena pescato (per 50€ ci potevamo anche stare, in Italia sarebbe costato più del doppio). Abbiamo mangiato pesce per tre giorni, polipo all’insalata, sarago al forno, pesce sconosciuto in guazzetto. Abbiamo pensato a lui con tanta gratitudine e credo che questo fosse l’obiettivo del suo gesto.

 

Insomma, una piccola disavventura terminata con un incontro fortunato….

 

F.R. Estate 2019.

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