C’ero già stato qualche anno fa e mi erano rimaste nel cuore le piccole Cicladi, sei-sette isolette tra Amorgos e Naxos, ben conosciute dai greci ma appena sfiorate dal turismo internazionale.
Nel 2017 mi ero prefisso di raggiungerle, prima di tornare in Italia a fine giugno. E’ il 23 giugno, siamo ormeggiati ad Amorgos, a Katapola il porto principale. Il tempo è buono ma l’inizio giornata è molto movimentato. Alle 7 del mattino parte il traghetto per le piccole Cicladi, o meglio tenta di partire. La nostra ancora è sopra la loro catena. Gran rumore di ferraglia sulla nostra prua, ma per fortuna i marinai del traghetto se ne accorgono subito e sbrogliano brillantemente la situazione usando cime e mezzi marinai.
Non oso pensare a cosa sarebbe successo se non se ne fossero accorti ….
A noi di Matilde, dopo la loro partenza, non resta che rifare la manovra di ormeggio per far sì che l’ancora faccia bene il suo ruolo e prenderci un buon caffè ristoratore.
L’appuntamento con il taxi che ci porterà al monastero è per le 9, ma alle 8 e mezza siamo già a terra gironzolando sul molo. Il neozelandese che ieri pomeriggio ci ha preso le cime quando siamo arrivati è anche lui in giro a godere della sonnolenta e fresca aria mattutina. Ha voglia di parlare (purtroppo) nel suo inglese per noi quasi incomprensibile e vuol sapere tutto di noi: chi siamo, da dove veniamo, perchè siamo lì, che mestiere facciamo….
A onor del vero in mezzo minuto ci racconta anche la sua vita, della quale sembra essere molto soddisfatto (ha quarant’anni, ha un’impresa di autotrasporti in Nuova Zelanda con 5 dipendenti, non è sposato, è in Grecia ospite a bordo di un charter con 12 persone di diverse nazionalità). Non riusciamo a capire come mai si trovi ad Amorgos, ma credo che internet abbia le sue brave responsabilità.
Alle 9 in punto il taxi è davanti alla splendida bakery di Katapola, luogo dell’appuntamento. Alla guida non c’è l’anziano signore con il quale di ieri sera abbiamo preso appuntamento, ma la figlia. Meglio, parla un perfetto inglese ed è anche molto simpatica. In dieci minuti siamo al Monastero abbarbicato sulla roccia, o meglio, siamo ai piedi della scalinata che porta al famoso Monastero.
Il taxi purtroppo non fa le scale, io e Dino si.
L’atmosfera è fantastica. Man mano che si sale, il panorama diventa sempre più mozzafiato con le rocce a picco che si tuffano nel mare azzurro e il bianco Monastero che si avvicina sempre di più. Memore della visita fatta qualche anno prima, ho indossato pantaloni lunghi risparmiandomi così d’indossare i ridicoli pantaloni enormi gentilmente offerti ai visitatori dai monaci del convento. Il Monastero è davvero suggestivo, sembra piccolo ma in realtà ha più di 100 stanze, otto piani abbarbicati sulla roccia. E’ stato costruito nell’undicesimo secolo. L’ingresso è molto piccolo e bisogna addirittura abbassare la testa per entrarci. All’interno altre strette scale portano alla cappella dedicata alla madonna. Un piccolo terrazzo accessibile dalla cappella fa godere al visitatore una vista indimenticabile.
La cappella è piccolina, ma piena di icone dall’aria vetusta, ma ben tenute. La visita si conclude in un salottino nei pressi dell’ingresso, dove i monaci offrono ai pellegrini acqua fresca e un bicchierino di rosolio da loro confezionato (ottimo ma un po’ discutibile alle dieci del mattino). Assieme a noi, nel salottino pieno di foto antiche, alcuni visitatori francesi bevono estasiati. Una piccola offerta sembra opportuna prima di uscire dallo splendido luogo di raccoglimento e ristoro.
Il rientro al porto, da noi ipotizzato in pullman, è un po’ avventuroso. Ci mettiamo ad aspettarlo dove ci ha lasciato il taxi, uno slargo ai piedi della scalinata. Qualche minuto dopo l’ora di arrivo previsto comincio a chiedermi come avrebbe fatto manovra per tornare indietro. Infatti mi informo e mi dicono che il bus ferma più in alto, sulla strada principale. Lo vediamo arrivare e Dino comincia a correre per fermarlo. Meno male che lui è più giovane e atletico di me e ci riesce. Io, con la lingua di fuori, tardo qualche secondo ma alla fine lo raggiungo.
Rientrati in barca, dopo aver riempito il serbatoio dell’acqua di poppa e aver pagato l’ormeggio (12€, peraltro senza ricevuta), alle 11.15 ci allontaniamo da Amorgos, in direzione piccole Cicladi, circa 10 miglia a nord. Dopo meno di due ore a motore prima tappa: Dhrima-Antikeros, due isolette disabitate, tra le quali c’è uno specchio d’acqua bassa dai colori caraibici, posto ottimo per ancorare.
Che spettacolo!!! Che bagno!!!! Che solitudine!!!!! Che pranzetto (la moussakà del ristorante avanzata la sera prima e insalata di pomodori)!!!! Che riposino!!!! Che vitaccia!!!!!
Al risveglio, preparazione della “genovese”, tipico piatto napoletano a base di carne (acquistata ad Amorgos – filettone da sette etti alla irrisoria cifra di 8€) con tanta tanta cipolla!!! Alle 17.00 inizia la cottura, tutto insieme carne, cipolle (più di un chilo), carotina, sale, acqua e vino. Finirà di cuocere alle 19, con progressiva aggiunta di acqua e di vino, il risultato sarà superbo!!!
Iniziata la cottura, si parte per Koufonissia, l’isola più famosa delle piccole Cicladi, anche se d’inverno popolata da soli 350 abitanti. Alle 18.30 ci si arriva e, viste le disavventure dell’ultimo porto, si preferisce stare in rada anche perché l’acqua è splendida davanti alla spiaggia del villaggio e ne approfittiamo per fare l’ultimo bagno della giornata. Ma la giornata non finisce qui, sono passati solo due giorni dal solstizio d’estate e il sole tramonta ben oltre le nove di sera. Con il gommoncino andiamo a terra.
Il paesotto è carino, un po’ più costruito di come me lo ricordavo, ma sempre affascinante con il suo borghetto di pescatori stretto intorno alla spiaggia più grande dell’isola. Data l’ora un aperitivo è d’obbligo: Houzu e pistacchi nella quiete serale del piccolo bar con terrazza sul mare. Qualche famiglia greca con bambini anima il piccolo borgo, ma l’atmosfera è serafica e invita al relax.
Dopo un’affacciatina al porto turistico (ancora in costruzione ma già frequentato da un po’ di barche da diporto), torniamo a bordo in gommoncino per gustarci la nostra carne “alla genovese”. A proposito, perché si chiama “alla genovese” visto che è un piatto tipico napoletano? Alcuni dicono che un cuoco napoletano, per saziare i soldati svizzeri provenienti da “Geneve”, si sia inventato questa ricetta che, alla fine, veniva chiamata appunto “alla genovese”. Sarà vero? Mah?! In ogni caso è un ottimo modo per cucinare la carne, e questo ci basta.
Poi, in barca, è tutto più buono …. e quella genovese era veramente fantastica. Buoni anche dei carciofini sott’olio comprati chissà dove. Ottimo il galaktoboureko (dolce greco a base di pasta fillo, crema e limone) della bakery di Amorgos. Giornatina intensa ma proficua, io alle 11 mi ritiro in cuccetta, e mi addormento mentre Dino in pozzetto suona la sua chitarra. Pure la ninna-nanna!!!! Questa è fortuna allo stato puro!!!!
Il tempo è buono, la notte scorre tranquilla in rada, il sonno è profondo.
Mi sveglio come al solito all’alba e, dopo aver aggiornato il diario di bordo, mi dedico a piccoli lavoretti: aggiunta d’olio al motore, rimontaggio della griglia di protezione del ventilatore, svuotamento dell’acqua in sentina, ennesima stretta alla cinghia dell’alternatore. Alle 9 altro giretto a terra. Rispetto a 5 anni fa c’è qualche costruzione in più, ma non tantissime. La maggior parte sono “studios” per turisti. Prima di tornare a bordo, sosta obbligata alla bakery (pane, bougatsa calda – dolce tipico greco in genere usato per la prima colazione – e tortino rustico con formaggio locale e verdure, quello che io chiamo “strufolo” ma che certamente ha un nome greco a me sconosciuto).
Alle 11 si salpa l’ancora e si lascia Koufonissia per raggiungere la vicina Skinoussa (sempre delle piccole cicladi). C’è poco vento, tutto motore e alle 12 siamo già a destinazione. Prima della rada principale c’è una baia con un isolotto davanti, Tsigouri beach. Tra l’isolotto e la spiaggia c’è una barca a vela alla fonda, indice del fatto che un passaggio abbastanza profondo c’è. Il gps ci aiuta a trovarlo e in due minuti siamo all’interno. Mamma mia che splendore!!!
Acqua profonda tre metri, di un colore stupendo.
La spiaggia è praticamente vuota (solo due persone su una spiaggia di almeno due-trecento metri), l’altra barca, che ha bandiera francese e ha a bordo una coppia di nudisti, dopo pochi minuti va via. Pensiamo di averli disturbati, invece dopo uno splendido bagno andiamo via anche noi perchè abbiamo visto un cartello di divieto di ancoraggio nell’angolo sud della baia. Non succede niente, anche ammesso che arrivi la guardia costiera peraltro mai vista in giro, ma se c’è il cartello qualche problema ci sarà (cavi o tubi sottomarini) e quindi è meglio non sfidare troppo la fortuna. Peccato, il luogo è incantevole!!!!
Ci spostiamo alla baia successiva, la principale dell’isola, dove c’è un piccolo molo e dove attracca addirittura il traghetto. Il fiordo è abbastanza profondo e finisce con una spiaggia orlata di tamerici. In tutto, nella baia, ci sono due barche a vela alla fonda e una al molo. Il fondale è perfetto (cinque-sei metri d’acqua) e decidiamo di rimanere alla fonda, per fare ulteriori bagni. Anche questo un posticino non male. Dopo un ulteriore bagno (in acqua sempre limpidissima – si vedono perfettamente l’ancora e ogni anello della catena), piccolo pranzo con “strufolo” e insalata di pomodori e … tanto per cambiare, distrutti dalla fatica, ci abbandoniamo a una meritata pennichella.
Nel pomeriggio, giretto a terra. Già sapevo che la parte abitata (la Hora) è un po’ lontana (un paio di chilometri in salita), ma sapevo anche che i locali che passano in macchina si fermano per darti un passaggio. E così è stato, però non siamo stati molto fortunati. L’auto che si è fermata era davvero un residuato bellico e il suo proprietario quasi sicuramente faceva il pastore. L’odore – sia del proprietario che dell’auto – non lasciavano dubbi in proposito!!
Ma … due chilometri in salita sono sicuramente più faticosi di un’apnea di cinque minuti.
Il paesetto (200 abitanti), tutte casette bianchissime piano terra e primo piano, è davvero carino e quasi non contaminato dal turismo. La chiesa, in cima alla salita, è la tipica chiesa ortodossa neanche tanto piccola, visto il numero degli abitanti. Dino e io entriamo, ma subito il pope, che era intento a parlare con una donna locale, ci fa cenno di non poter rimanere in chiesa con i pantaloni corti che indossiamo. Quindi usciamo subito e un uomo anziano, seduto davanti all’uscio di casa, che già avevamo salutato con un cordiale “Kalispera” prima di entrare in chiesa, sorride e fa cenno ai pantaloni, alzando gli occhi al cielo e facendo spallucce, quasi per chiedere scusa per il prelato irremovibile. Sorridiamo anche noi e lo salutiamo con un amichevole “Iassu”.
Completiamo il giro del paese arrivando fino allo strapiombo che si affaccia sulla parte sud dell’isola. E’ tutto davvero incantevole. L’unica cosa un po’ strana è che notiamo una quantità abnorme di minimarket, credo una decina, praticamente allestiti nella parte bassa della casa del “commerciante” di turno. Sono tutti molto piccoli e forse ognuno ha una sua specificità, probabilmente ben nota ai soli abitanti dell’isola. A metà paese, verso ovest, un belvedere ci fa ammirare la rada dove eravamo prima, Tsigouri beach, che dall’alto con il suo isolotto davanti è ancora più bella.
Il ritorno in barca, in discesa, è ovviamente molto più agevole e ci avvaliamo di una scalinata che abbrevia il percorso tagliando i tornanti.
La scalinata, che inizia appena fuori del centro abitato, è bella, ampia, nuova di zecca, ben pavimentata e attrezzata con lampioni nuovi nuovi che testimoniano che la sera è anche illuminata. Non sembra proprio di essere in una piccola isola dell’Egeo. Che sia un miracolo dei contributi europei ben utilizzati? Restiamo con la curiosità.
Mentre saliamo sul gommoncino per tornare su Matilde, un’imbarcazione a motore, con una ventina di turisti a bordo, approda al molo. Non hanno bagagli e quindi la sensazione è che faranno un giretto sull’isola, un po’ come l’abbiamo fatto noi, e poi andranno via. In ogni caso, non si tratta di un numero di persone irragionevole, come quelle che sbarcano dalle navi da crociera che qui, credo e spero, non approderanno mai!!!
Dopo un ulteriore bagnetto ristoratore e una birretta fresca (ne avevamo proprio bisogno visto le grandi fatiche della giornata) salpiamo l’ancora e ci dirigiamo verso l’isoletta di fronte: Iraklia, sempre facente parte delle piccole cicladi, e che, nonostante conti solo 150 abitanti, è dotata anche di un piccolo porto. Ma il porticciolo è pieno (ben sei barche) e su consiglio di un pescatore locale ormeggiammo Matilde in testa di molo, senza ancora, in parallelo alla fine del molo stesso (ormeggio cosiddetto “all’inglese”). Le cime di poppa e di prua vengono prese dallo stesso pescatore che ci ha consigliato quel posto e da una signora inglese prontamente scesa dalla sua barca per darci aiuto.
Che pacchia: tempo buono, niente ancora, discesa a terra facilissima (banchina parallela all’intera barca), acqua cristallina, villaggetto favoloso. Sistemate le cime e i traversini, io mi catapulto a terra per la curiosità di toccare con mano i progressi fatti in questi anni. Dino invece fa un altro bagno sulla scogliera esterna e poi mi raggiunge.
La prima volta che sono entrato in questo porticciolo sei anni fa era mattina e la banchina era totalmente vuota; un pescatore sbatteva e risbatteva un povero polipo sugli scogli, con l’evidente intento di ammorbidirlo ma con una cattiveria che contrastava fortemente con la bellezza e la serenità del luogo. Siccome però in serata era previsto un po’ di vento forte, diedi solo una snasata in questo affascinante porticciolo dalle acque limpide e rivolsi la prua verso Amorgos che ha un porto molto più protetto.
L’anno dopo trovai invece ben tre barche attraccate al molo di Iraklia; Matilde fu la quarta, e anche l’ultima perché dopo di noi non arrivò più nessuno. Avendo un po’ di tempo a disposizione, nel pomeriggio andai “a piedi” al bianco paesino in alto (la Hora), che dista circa tre chilometri dal porticciolo (anche allora andata in auto con passaggio volontario di un automobilista locale e ritorno, in discesa, a piedi). Ma la Hora non mi piacque particolarmente. Aveva un aspetto spettrale, sembrava disabitata, o meglio abitata solo da qualche anziana signora vestita di nero con fazzoletto, anch’esso nero, in testa. Non sapevo che pensare, ma ho creduto che fossero tutti a lavorare nei campi o ad accudire il bestiame nelle campagne circostanti. All’epoca, nel porticciolo c’era solo una taverna che cucinava il pesce pescato dai locali e la sera non me la feci sfuggire.
La mattina dopo, al risveglio, sul molo c’erano cinque o sei persone e un insegnante che facevano silenziosamente ginnastica, credo yoga, ciascuno con il suo tappetino a terra. Probabilmente erano tutti ospiti di una delle barche nel porticciolo. Un’atmosfera indimenticabile. A cinque anni di distanza l’unica taverna che avevo lasciato nel porticciolo era stata affiancata da almeno altri tre quattro baretti-ristorantini ben messi anche se non di lusso, c’era addirittura un negozio che vendeva piccoli souvenir artigianali confezionati in loco (forse dalle signore in nero della Hora), il molo era stato attrezzato in modo che all’esterno potesse attraccare addirittura un traghettino.
Passi da giganti in pochi anni. Ma in Grecia, se si ha voglia di fare, è tutto più facile. Arrivo fino alla chiesetta bianca a qualche centinaio di metri dal porto, mi godo una breve visita senza che nessuno mi cacci per i miei indecenti bermuda (la chiesetta è vuota, ma aperta, come spesso accade), uscendo richiudo accuratamente la porta e il cancello per evitare vi entrino animali (qualche capretta potrebbe profanare il luogo sacro), e riscendo verso il porto, fermandomi per l’aperitivo d’obbligo a un baretto che ha un portico davvero carino.
Ovviamente non ci sono molti tavolini. Uno è occupato da me, un altro da una giovane famigliola greca che non sembra del luogo e un altro da un sacerdote ortodosso un po’ male in arnese (il suo abito talare è molto consunto) in compagnia di un vecchietto locale e bevono acqua. Dopo un po’ arriva Dino, che si era fatto il bagno, e insieme dividiamo una birretta e una limonata, evitando l’houzu che il giorno prima ci aveva fatto girare un po’ la testa.
Al ritorno sul molo, una sorpresa: un signore seduto su una panchina canta canzoni greche, non a squarciagola ma neanche in sordina. E’ una giusta cornice a un’isola così affascinante, il tizio sembra mandato apposta dalla proloco. Non riusciamo a capire se è sceso da una delle barche attraccate o è un isolano perché quando torniamo su Matilde e ci dedichiamo ai fornelli sottocoperta dopo un po’ il signore scompare nel nulla. Chissà, certo che è strano.
Ci consoliamo presto della perdita con un bel piatto di rigatoni conditi col sugo della genovese del giorno precedente e abbondante parmigiano grattugiato. Pazienza, speriamo che torni. Ma non è stato così.
Il giorno dopo è il 25 giugno, il 30 abbiamo l’aereo per l’Italia e prima dobbiamo portare Matilde al suo ormeggio a Methana (Peloponneso). Il tempo è buono, meglio approfittarne. Alle 6 di mattina il sole è già sorto e noi togliamo i facili ormeggi. Fuori dal porto prua verso Sifnos (Cicladi occidentali); fino alle 10 c’è poco vento e si va a motore. Poi, 10-12 nodi di vento e mare calmo ci consentono una piacevolissima bolina larga.
A Sifnos, in rada a Platya Yalos, arriviamo a mezzogiorno. Anche quest’isola è splendida … ma questo è un altro racconto.
Vi è venuta voglia di Genovese, in questo link troverete la ricetta della genovese!!!!
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